Il capitale di rischio: private equity e venture capital
scritto da Francesco Zito il 21 Marzo 2008
Una ventina di anni or sono per “venture capital” si intendeva apporto di capitale azionario da parte di operatori specializzati, in operazioni a medio-lungo in imprese non quotate ma dinamiche. Si tratava di una partecipazione temporanea, minoritaria e volta allo sviluppo. Successivamente l’attività di investimento si è diversificata, ma fondamentale resta l’acquisizione corposa di partecipazioni a medio-lungo, e l’obiettivo del raggiungimento di una plusvalenza sulla vendita delle azioni.
Il private equity è distinto tra venture capital (finanziamento delle imprese start-up o delle imprese esistenti per accelerarne l’espansione) e buy out.
I fondi provenienti dall’investimento in capitale di rischio possono avere più finalità: sviluppo di nuovi prodotti e di nuove tecnologie, espansione del circolante, finanziamento di acquisizioni, rafforzamento della struttura finanziaria, soluzione di problemi connessi con la proprietà dell’impresa o con il passaggio generazionale, realizzazione di operazioni di buy out / buy in, disponibilità di know how manageriale, crescita esterna (attraverso contatti, investimenti, collaborazioni con imprenditori del medesimo o di altri settori), tempestività con la quale è possibile entrare in nuovi settori. L’attività di inve-stimento nel capitale di rischio favorisce così lo sviluppo del sistema industriale e dell’economia.
Il processo di raccolta è una fase, oltre che estremamente delicata, molto impegnativa dal punto di vista delle risorse e del tempo; generalmente l’attività di fund raising impegna gli investitori per un periodo di circa un anno.
Strutturato il fondo occorre preparare una sorta di business plan (il placement memorandum), il quale ha una funzione essenziale per il successo dell’operazione. Un esauriente placement memorandum deve, in primo luogo, contenere la descrizione di tutti i termini e delle condizioni, includendo, quindi, dati e prospetti a proposito di dimensione del fondo e dimensione delle quote di partecipazione, durata del fondo e politiche di distribuzione dei proventi, management fee, costi di organizzazione e struttura, reporting.
Detto percorso è ovviamente finalizzato all’incontro con gli investitori, i quali valutano i contatti.
Va poi predisposta la documentazione legale, (atti e contratti per concludere l’investimento).
Tradizionalmente, i soggetti che erogano capitale nel settore del private equity e del venture capital sono investitori istituzionali (fondi pensione, istituzioni bancarie) che non potrebbero svolgere direttamente tale attività, ma al tempo stesso sono interessati ai ritorni ottenibili nel medio-lungo periodo.
Ruolo importante stanno assumendo i “fondi di fondi”, caratterizzati da ingenti disponibilità di capitali, spesso lanciati da banche che impiegano la propria raccolta in quote di altri fondi di private equity e venture capital invece che direttamente.
L’approccio classico La più classica e diffusa segmentazione del mercato del capitale di rischio, le cui categorie, seppur con minimi adattamenti geografici, sono internazionalmente adottate dagli operatori, dalle associazioni e dai centri di ricerca, anche ai fini statistici, classifica le tipologie di investimento, sostanzialmente, a seconda delle diverse fasi del ciclo di vita dell’impresa target. In tale ottica, si parla di seed (finanziamento dell’idea) e start up financing per individuare gli interventi cosiddetti di early stage, volti cioè a finanziare le primissime fasi di avvio dell’impresa. Successivamente, qualora l’investimento sia finalizzato a supportare la crescita e l’implementazione di programmi di sviluppo di aziende già esistenti, vengono utilizzati i termini expansion financing o deve-lopment capital, mentre si parla di replacement capital (capitale di sostituzione) per riferirsi ad interventi che, senza andare ad incrementare il capitale sociale dell’impresa, si pongono l’obiettivo di sostituire parte dell’azionariato non più coinvolto nell’attività aziendale. Ancora, tutte le operazioni orientate al cambiamento totale della proprietà dell’impresa, sia a favore di manager interni alla stessa società (management buy out) che di manager esterni (management buy in), con il frequente uso della leva finanziaria come strumento di acquisizione (leveraged buy out), vengono generalmente raggruppate nella categoria dei “buy out”; così come si parla di turnaround per indicare gli investimenti di ristrutturazione di imprese in crisi e di bridge financing con riferimento agli in-terventi finalizzati, sin dal momento della loro realizzazione, nell’accompagnare l’impresa in Borsa. All’interno delle dette categorie sono, a loro volta, individuabili ulteriori tipologie di investimento, a seconda della specifica fase aziendale e dello specifico tipo d’intervento.
Una nuova concezione La crescente complessità dei settori “merceologici” e delle peculiari problematiche ad ognuno di essi riconducibile (si pensi all’ampio comparto dell’ Information Technology ed a quanto sta avvenendo nei sistemi economici più avanzati, dove aziende “neonate” sono già pronte alla quotazione in Borsa) fa sì che, in determinati casi, lo stadio di sviluppo delle diverse imprese, e le esigenze finanziarie ad esso collegate, poco si prestino ad una schematizzazione classica. In più, gli operatori nel capitale di rischio sviluppano di continuo avanzati strumenti di ingegneria finanziaria, sempre più complessi e sofisticati, attraverso i quali si fa uso contemporaneo di diverse leve e che, per questo motivo, sono difficilmente catalogabili. Alla luce di ciò, si ritiene di dover esprimere, oggi, una più corretta classificazione, basata sulla macro ripartizione tra le diverse esigenze strategiche dell’impresa, le problematiche ad esse riconducibili e gli obiettivi di soddisfacimento di queste che si pone l’investitore. In tale ottica, gli interventi degli investitori istituzionali nel capitale di rischio possono essere raggruppati, classificati e caratterizzati sulla base di tre principali tipologie:
finanziamento dell’avvio;
finanziamento dello sviluppo;
finanziamento del cambiamento/ripensamento.
Alla prima categoria viene ricondotta l’attività propriamente detta di venture capital, mentre la seconda e la terza rientrano nel segmento del private equity.
All’interno di tale categoria sono ricondotti tutti gli interventi il cui obiettivo è quello di supportare la nascita di una nuova iniziativa imprenditoriale, sia essa ancora nella fase embrionale, che nelle primissime fasi di avvio. Dal punto di vista della domanda (impresa), la richiesta di intervento è generalmente riconducibile a un imprenditore - o aspirante tale - intenzionato a sviluppare una
nuova invenzione, o a migliorare/implementare un prodotto/processo produttivo esistente. Prima che la commercializzazione del nuovo prodotto sia avviata e consegua i primi successi, servono spesso ricerche (di base, di mercato, ecc…) o altre attività, le quali richiedono investimenti a volte onerosi. Inoltre, ciò di cui il portatore della nuova idea imprenditoriale ha spesso grande bisogno è un apporto in termini di capacità imprenditoriale, di competenze aziendali e manageriali. Nelle operazioni di avvio, o di early stage, l’uomo necessita spesso, più che di un mero contributo in termini di capitali, di un aiuto nella definizione della formula imprenditoriale e nella riflessione sulla propria posizione competitiva. Al tempo stesso, l’investitore deve necessariamente avere fiducia non solo nelle potenzialità del business, ma anche negli uomini che con lui lo condurranno. Una distinzione deve poi essere effettuata tra il lancio di prodotti e servizi ad alto contenuto tecnologico (high tech) e attività di tipo più tradizionale. La necessità di conoscenze altamente specializzate e ancora non particolarmente consolidate (specie nei paesi dell’Europa continentale), unita alla rapidità di obsolescenza dei prodotti e dei processi tipica dei settore tecnologici, caratterizzano gli investimenti effettuati in tale comparto, soprattutto in termini di necessità di valutazione delle capacità imprenditoriali più che reddituali dell’impresa e di diminuzione dei tempi di permanenza del socio istituzionale nella compagine azionaria.
Il finanziamento dello sviluppo La seconda macro categoria di interventi effettuati da investitori istituzionali nel capitale di rischio è riconducibile a tutte quelle situazioni nelle quali, a diverso titolo e secondo diverse modalità, l’impresa si trovi di fronte a problema-tiche connesse al suo sviluppo. Lo sviluppo di un’attività imprenditoriale che ha già raggiunto un determinato livello di maturità, può essere generalmente perseguito attraverso l’aumento o la diversificazione diretta della capacità produttiva (sviluppo per vie interne), l’acquisizione di altre aziende o rami di azienda (sviluppo per vie esterne), oppure l’integrazione con altre realtà imprenditoriali, fermo restando un elevato grado di autonomia operativa delle singole unità (sviluppo “a rete”). Nel primo caso, il contributo dell’investitore nel capitale di rischio sarà prevalentemente di natura finanziaria, anche se, essendo generalmente presenti ancora molte aree di sviluppo inesplorate, soprattutto in termini di diversificazione produttiva e geografica, l’elemento consulenziale potrà rilevarsi estremamente prezioso. Nel caso si intendessero perseguire gli obiettivi di sviluppo attraverso una crescita per vie esterne, particolare importanza è assunta dal network internazionale che l’investitore è in grado di attivare per l’individuazione del partner ideale. In virtù di ciò, questo genere di interventi risulta particolarmente congeniale agli operatori che dispongono di una consolidata esperienza di carattere internazionale e una notevole rete di conoscenze in seno a realtà economiche e industriali di paesi diversi. Nel terzo caso, infine, si fa riferimento ad una tipologia di intervento finalizzata al raggruppamento (cluster) di più società operative indipendenti, integrabili verticalmente od orizzontalmente e caratterizzate da considerevoli similitudini in termini di prodotti, mercati e tecnologie, possedute da una holding svolgente un ruolo di coordinamento strategico e dove la maggioranza è detenuta da una o più società di investimento.
Il finanziamento del cambiamento La terza categoria di interventi in capitale di rischio è finalizzata al finanziamento di processi di cambiamento interni all’azienda, che, seppur fondati su motivi differenti, spesso portano ad una modifica, più o meno profonda, dell’assetto proprietario della stessa. Si tratta della categoria maggiormente indipendente, rispetto alle altre, dallo stadio di sviluppo raggiunto dall’impresa, che invece colloca la necessità di ricorso ad un investitore istituzionale nell’esigenza di un suo “ripensamento”. Le motivazioni che si pongono alla base del cambiamento possono risiedere tanto nel cosciente raggiungimento, da parte dell’impresa, di una fase anagrafica, strategica o patrimoniale di “stallo”, per il cui superamento è necessario una modifica del suo assetto, quanto nel verificarsi involontario di eventi negativi.
La fase dello smobilizzo costituisce la parte finale della sequenza del processo di investimento, una fase estremamente delicata perché è in questo stadio che può realizzarsi un guadagno di capitale, che rappresenta lo scopo ultimo dell’investitore istituzionale nel capitale di rischio. Tale operatore, infatti, non rimane per sua natura legato troppo a lungo alle imprese finanziate (se così non fosse si trasformerebbe in holding di partecipazione), visto che si propone come partner temporaneo e che il suo obiettivo finale è quello di realizzare un capital gain nel medio-lungo periodo.
Riassumendo le modalità di disinvestimento in uno schema, esse possono essere distinte nel modo seguente:
1. la vendita delle azioni sul mercato borsistico;
2. la cessione della partecipazione a un socio di natura industriale (trade sale);
3. la cessione della partecipazione a un altro operatore di private equity o venture capital (replacement e secondary buy out)
4. il riacquisto della partecipazione da parte del socio originario (buy back);
5. l’azzeramento della partecipazione a seguito di fallimento (write off).
La scelta del canale di disinvestimento, seppur indicativamente già definita al momento della negoziazione, deriva da una serie di fattori legati alla tipologia dell’impresa target (dimensioni, settore di attività, caratteristiche organizzative ecc.), ai risultati raggiunti attraverso la collaborazione tra investitore e imprenditore, a elementi congiunturali, nonché alle specifiche volontà e preferenze di tutti gli shareholders. Di fatto, nessuna delle vie sopra indicate è realmente programmabile con un grado di certezza assoluta: tutto dipende dalla qualità del lavoro svolto e dal suo successo.
La quotazione dei titoli della società partecipata su un mercato regolamentato rappresenta, nella maggior parte dei casi, la più ambita via di dismissione della partecipazione da parte dell’investitore istituzionale.
I principali vantaggi riconducibili alla dismissione tramite IPO sono attribuibili ai seguenti fattori:
- la possibilità di spuntare un prezzo più alto (estremamente dipendente da elementi esogeni);
- la maggior facilità di incontrare le preferenze del management dell’impresa;
- la possibilità di un guadagno ulteriore derivante dall’incremento del valore, post quotazione, delle azioni rimaste in portafoglio dell’investitore istituzionale.
Sul fronte opposto, i principali svantaggi sono rappresentati da:
- la dimensione dei costi, maggiore rispetto ad altre alternative di dismissione;
- le clausole di lock up che impediscono agli investitori presenti nella compagine azionaria prima della quotazione di cedere immediatamente tutte le partecipazioni detenute;
- l’illiquidità di molti mercati europei;
- la necessità, affinchè l’IPO vada a buon fine, di attrarre un vasto numero di investitori;
- il fatto che tale opzione sia, in realtà, impercorribile per alcune piccole imprese.
Allo stesso tempo, tuttavia, l’ammissione al listino ufficiale di Borsa non è un processo semplice per le imprese minori e, quindi, tale canale può essere inserito in un’ottica di medio-lungo termine, come modalità avente un ragionevole grado di certezza, solo per quelle società che hanno già raggiunto un certo sviluppo e una certa maturità.
Nell’ambito della gamma delle possibilità di disinvestimento, la modalità internazionalmente più diffusa è comunque rappresentata dalla cessione delle quote della partecipata a nuovi soci industriali, o dalla fusione con altre società.
I principali vantaggi riconducibili a questa tipologia di dismissione sono attribuibili ai seguenti fattori:
- gli acquirenti possono pagare un prezzo maggiore, riconducibile al premio attribuibile all’importanza strategica che ha per loro l’acquisto dell’impresa target;
- è possibile liquidare immediatamente il 100% della partecipazione posseduta;
- si tratta di un’operazione più economica, veloce e semplice rispetto a un IPO;
- a volte è l’unica opzione per alcune imprese minori;
- è necessario convincere un solo soggetto acquirente, anziché l’intero mercato.
In termini di svantaggi, invece, si sottolineano i seguenti:
- spesso il management dell’impresa target è contrario all’operazione;
- in alcuni paesi non ci sono molti trade buyers;
- alcuni investitori istituzionali non sono disposti a concedere le garanzie tipicamente richieste dagli acquirenti.
Oltre alla possibilità di quotazione in Borsa dell’impresa partecipata e al trade sale, altre importanti tipologie di disinvestimento sono rappresentate dalla vendita a un’altra istituzione finanziaria e dal riacquisto delle quote da parte del management o degli altri azionisti. L’azzeramento (write off) della partecipazione a seguito della sua totale perdita di valore non rappresenta di fatto una vera e propria modalità di disinvestimento, in quanto non contiene alcun elemento discrezionale da parte dell’investitore.
Il caso di cessione ad altro investitore istituzionale, situazione in passato poco frequente, rappresenta di fatto una tipologia di way out che si sta diffondendo sempre di più, in particolar modo nelle ipotesi di secondary buy out, quando, cioè, è una quota di maggioranza o addirittura l’intera azienda che passa di mano da un investitore a un altro.
Il riacquisto della quota dell’investitore istituzionale nel capitale di rischio da parte dell’imprenditore è, invece, una modalità di cessione della partecipazione spesso prevista contrattualmente fin dall’inizio dell’intervento partecipativo, affidandone l’attivazione all’imprenditore (call) o all’investitore (put) e può rappresentare un’alternativa offerta all’imprenditore qualora questi non voglia intraprendere un processo di quotazione o ces-sione della propria quota.
Questo articolo è stato pubblicato il 21 Marzo 2008 alle 10:12
ed è archiviato in Economia aziendale, Finanza ordinaria. .
Puoi seguire i commenti a questo articolo tramite il Feed RSS 2.0 feed.
Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.
URL per citare l'articolo (trackback):
http://www.ecofinpress.it/finord/il-capitale-di-rischio-private-equity-e-venture-capital/trackback/
1 Maggio 2008 alle 10:11
Caro Zito,
Sono Socio GEI da molto tempo.
Ho letto - su indicazione di Giampaolo - il tuo articolo di cui sopra sul VC e PE; mi permetto di segnalare che manca una parte del mondo del VC, che è il Capitale di Rischio Informale dei Business Angels (v. sito http://www.iban.it ).
Ti segnalo in proposito il link ad una ns recente intervista che, se possibile, potrebbe essere pubblicata tra i contributi sul tuo sito, come anche il riferimento del ns sito nella parte “siti di interesse”. http://www.iban.it/audio/intervista23.htm
Grazie e saluti
Tomaso Marzotto Caotorta